PREVENZIONE PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI
a cura di Sergio Lupo
Specialista in Medicina dello Sport
La medicina dovrebbe in primo luogo essere di tipo preventivo: curare una patologia è sempre più difficile che attuare un programma di prevenzione efficace. Purtroppo però la medicina preventiva è un fatto di cultura: di solito ci si rivolge al medico solo quando “si sta male”. Non a caso la Medicina dello Sport, forse la specializzazione “principe” per la prevenzione, è conosciuta solo per l’obbligo di sottoporsi a visita per ottenere il certificato di idoneità e non come un momento periodico di valutazione in cui il medico può intervenire su un soggetto sano per correggere le eventuali situazioni di rischio (cattive abitudini alimentari, eccesso ponderale, atteggiamenti scoliotici, piede piatto ecc.).
Quanto detto è valido a tutte le età: patologie cardiovascolari acute (patologie coronariche, infarto, ictus …) possono essere favorite da errate abitudini di vita (alimentazione eccessiva e/o scorretta, sedentarietà) e/o da patologie croniche (diabete, patologie tiroidee, ipertensione arteriosa …). Non va poi dimenticata la “morte improvvisa da sport”, situazione tragica che colpisce giovani atleti senza cause apparenti e che spesso è determinata da patologie cardiache non evidenziate: talvolta, controlli medici ben effettuati potrebbero contribuire ad evitare questa evenienza “scoprendo” le patologie non sintomatiche.
INFARTO: COME PREVENIRLO CON L’ATTIVITÀ FISICA
Ai nostri giorni ormai tutti “… fanno sport …”: palestre, piscine, strutture sportive di ogni genere, vendono il loro prodotto, pubblicizzando le attività più nuove e divertenti (rowing, spinning, aeroboxe …) dimenticando, però, che quasi sempre gli utenti sono dei sedentari, magari in sovrappeso, che non hanno mai praticato alcuna attività sportiva. A questi si aggiungono “gli sportivi della domenica, o del sabato“: tutti coloro che una volta a settimana disputano la loro partita di calcetto o di tennis, impegnandosi alla morte per non perdere, senza alcuna preparazione fisica di base. Nei periodi invernali, poi, c’è il “popolo degli sciatori” che partono per la loro “settimana bianca”, durante la quale battono le nevi ore ed ore ogni giorno, tornando a casa, quando va bene, distrutti dal punto di vista fisico e talvolta, purtroppo, reduci da incidenti traumatici spesso gravi.
“… La partita di calcetto o la corsa in bicicletta una volta a settimana sono deleterie. Piuttosto è meglio l’inattività …”. Il prof. Alberto Galante, docente di Semiotica e Metodologia Medica all’Università Tor Vergata di Roma, uno degli organizzatori del II° Simposio Internazionale dal titolo “Trends in Exercise Phisiology and Cardiac Rehabilitation”, che si è svolto il 5 e 6 settembre 2003 presso il Centro Congressi della Casa di Cura San Raffaele Pisana di Roma, non ha dubbi: “… Una attività fisica sana, regolare e senza sforzi aumenta il colesterolo buono (HDL), diminuisce quello cattivo (LDL), abbassa la pressione arteriosa e i livelli di glicemia ma, soprattutto, riduce il rischio di aritmie minacciose e di morti improvvise. Lo sport praticato una volta a settimana e interrotto bruscamente è dannoso. Meglio farlo con gradualità e costanza …“.
L’allenamento migliora inoltre il livello generale delle funzioni fisiologiche e lo mantiene nel tempo.
Studi recenti affermano che l’esercizio fisico ridurrebbe del 25% i rischi di mortalità da infarto. Infatti, la probabilità di un primo attacco cardiaco risulta raddoppiato nelle persone sedentarie di sesso maschile rispetto a coloro che praticano sport.
Da sottolineare il fatto che non occorre un livello di efficienza fisica altissimo e la pratica di complicate attività sportive per ottenere questo risultato, ma è sufficiente un livello appena accettabile di efficienza ed anche semplicemente “passeggiare” (vedi figure seguenti).
Le attività sportive preventive? “Nuoto, tennis, footing possibilmente all’aperto – spiega sempre il prof. Galante – e comunque mai meno di quattro volte a settimana per 40 minuti a seduta. A coloro che non possono frequentare una palestra consiglio di camminare molto“.
Quindi sì all’attività fisica, ma praticata con costanza, gradualità e rispettando gli adeguati tempi di recupero. Ovviamente l’attività fisica è sconsigliata quando fa caldo o troppo freddo, dopo aver mangiato abbondantemente o, al contrario, senza aver mangiato (ci si deve alimentare almeno 3 ore prima dell’attività fisica).
L’attività migliore è quella ad impegno prevalentemente aerobico, mantenendo la propria frequenza cardiaca (FC) intorno al 70% della FC max teorica per Età.
Quando, poi, la persona ha già avuto una patologia cardiaca e/o è stato operato per correggere una patologia coronarica, diventa fondamentale l’attività fisica controllata per migliorare l’efficacia dell’intervento e prevenire ulteriori recidive.
Nel caso in cui il paziente sia stato sottoposto a intervento chirurgico c’è la ginnastica “calistenica”. “Si tratta di una serie di esercizi dolci – prosegue il cardiologo – da far eseguire dopo la seconda settimana dall’infarto e dopo la terza dall’operazione. Solo in questo modo si previene il secondo infarto e si evita un peggioramento della malattia ischemica di fondo …“.
È notizia di questi giorni che in dieci anni la sindrome coronaria acuta responsabile degli attacchi è scesa dal 10 al 5%. Ogni anno in Italia sono vittime di malattie cardiovascolari 242mila persone. Di queste, il 30%, cioè 73mila, sono dovute all’infarto del miocardio: 187 decessi ogni 100mila abitanti. Nel Bel Paese i pazienti affetti da cardiopatia ischemica, l’anticamera della sindrome coronaria acuta, sono un milione e 500mila. Un dato finale: gli uomini nell’età compresa tra i 50 e i 70 anni sono a maggiore rischio infarto rispetto alle donne, soprattutto nei paesi nordici dove è più alto il consumo di grassi animali.
Attualmente comunque, il sempre maggiore impegno nel mondo del lavoro delle donne (in attività che in precedenza erano “esclusive” degli uomini) ha fatto registrare un incremento di queste patologie anche nel sesso femminile.
Per concludere: non è mai tardi per iniziare a svolgere una adeguata attività fisica; non si deve più pensare che con l’età la possibilità di migliorare la propria efficienza fisica diminuisca, ma si deve cercare invece di mantenerla costante il più a lungo possibile.
UN ARRESTO CARDIACO SU QUATTRO SI VERIFICA IN LUOGHI PUBBLICI E AFFOLLATI
COMUNICATO STAMPA – ROMA, CITTÀ DEL CUORE (7/11/2002)
In Italia oltre 57.000 persone ogni anno muoiono per arresto cardiaco improvviso: 1 su 1.000 abitanti; 1 ogni 19 minuti. Un numero enorme che corrisponde al 10% dei decessi che si verificano annualmente nel nostro Paese. La percentuale di sopravvivenza all’arresto cardiaco è inferiore al 2%, poiché i sistemi tradizionali di soccorso molto spesso non arrivano in tempo per eseguire con successo l’unica terapia in grado di ristabilire la normale attività cardiaca: la defibrillazione elettrica. E’ stato presentato oggi dall’Assessore alla Sanità Raffaella Milano e dal professor Giuliano Altamura, il progetto “Roma, città del cuore” che prevede la distribuzione di defibrillatori semiautomatici in 5 municipi romani (I-III-XI-XII-XIII) scelti fra le aree cittadine maggiormente affollate da residenti e turisti. (Il I-III-XIII municipio partecipano al progetto “Tridente Vita”, sottoprogetto di “Roma, città del cuore” a cui sono stati assegnati 55 defibrillatori). “In caso di arresto cardiaco improvviso l’unica terapia possibile ed efficace che può dare garanzia di successo è la defibrillazione precoce, purché venga applicata in tempi brevi” dichiara il professor Giuliano Altamura, Primario cardiologo presso l’Ospedale San Giacomo di Roma, nonché Presidente dell’Associazione “Insieme per il Cuore” e ideatore e promotore del progetto. “Gli attuali sistemi di soccorso istituzionali hanno purtroppo tempi d’intervento troppo lunghi a causa delle distanze e del traffico cittadino. E’ per questo che la nostra Associazione, in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Roma, sta creando nelle zone di Roma particolarmente affollate (Municipi I-III-XIII) una rete di soccorso che affianchi il sistema di soccorso istituzionale nella lotta contro l’arresto cardiaco, che è una lotta contro il tempo” afferma l’esperto. Il punto cardine del progetto è quello di addestrare il personale di soccorso non medico all’utilizzo dei defibrillatori semi-automatici. “La nostra finalità è quella di diffondere una cultura di emergenza cardiologica e formare la popolazione all’uso dei defibrillatori semi-automatici. Formeremo, infatti, centinaia di volontari (tra cui: vigili urbani, vigili del fuoco, carabinieri, polizia municipale e addetti al trasporto pubblico) ad un corretto utilizzo di questi apparecchi, che sono diventati oggi più semplici e intuitivi, grazie alle tecnologie d’avanguardia delle aziende produttrici, in questo caso Medtronic, azienda vincitrice della gara e quindi fornitore ufficiale del progetto” continua Altamura. I defibrillatori semi-automatici per la defibrillazione precoce sono stati studiati appositamente per essere utilizzati anche dai soccorritori laici. Il defibrillatore Medtronic Lifepak® 500 utilizzato nel Progetto “Roma, città del cuore” è un defibrillatore semiautomatico, portatile, di piccole dimensione e facile utilizzo. Esso analizza automaticamente il ritmo cardiaco del paziente ed è in grado, guidando l’operatore, di erogare uno shock salvavita cosi da ripristinare il normale battito cardiaco. Le istruzioni vocali e su schermo emesse dal dispositivo assistono l’operatore durante le fasi del soccorso rendendolo estremamente intuitivo nel suo utilizzo. “Non è necessaria alcuna esperienza medica per saper utilizzare appropriatamente i defibrillatori. Bastano infatti poche ore di addestramento per imparare a salvare una vita umana” conclude il professor Altamura.
Illustrazione di Claudia Lodolo
MORTE IMPROVVISA DA SPORT
a cura di: NONSOLOFITNESS.IT
Introduzione
La medicina dello sport è una branca della medicina che studia la fisiopatologia delle attività sportive, con particolare attenzione alle patologie silenti e asintomatiche che poi possono determinare gravi conseguenze se non diagnosticate prima della pratica sportiva.
Le attività sportive devono essere analizzate in base al tipo di impegno muscolare che l’attività sportiva determina e alle richieste energetiche. Qualsiasi attività sportiva o fisica che richieda impegno muscolare, determina modificazioni dell’apparato cardio-vascolare, nel corso e per effetto dell’allenamento di quella specifica disciplina.
In alcuni casi il sistema cardiovascolare può essere danneggiato dall’attività sportiva, soprattutto se il soggetto praticante non è a conoscenza della patologia di cui è affetto. È questa la ragione principale che ci porta ad analizzare l’impegno cardio-vascolare che la disciplina richiede. Bisognerà altresì tener presenti le differenze individuali di ogni soggetto che si appresta a compiere questo tipo di lavoro, ed in particolare: sesso; età; lavoro svolto; peso corporeo del soggetto; patologie pregresse; cure farmacologiche in corso (chi ad esempio fa uso di beta bloccanti tenderà ad avere una pressione più bassa ed una frequenza cardiaca minore che mal si adeguerà alla nuova richiesta di sangue da parte dell’organismo); patologie in atto; fumo; dieta e perfino l’orario in cui si pratica l’attività sportiva, poiché gli ormoni in circolo sono differenti ed in diverse quantità, infine sarà utile indagare su eventuali patologie familiari (di natura cardiovascolare, diabete ecc.).
La valutazione diagnostica in medicina dello sport è finalizzata alla determinazione dell’efficienza dell’apparato cardiovascolare ed alla ricerca di eventuali patologie sistemiche. Prevede, quindi, una serie di indagini che vanno dalla storia anamnestica dell’atleta fino a ricerche strumentali sofisticate (qualora quelle più semplici effettuate di routine diano indicazioni in tal senso).
L’anamnesi è il primo passo: dalla semplice valutazione della storia familiare ed individuale molte volte ci s’indirizza verso indagini precise. L’esame obiettivo generale e cardiovascolare è volto a stabilire la totale integrità del soggetto in esame.
Gli esami strumentali prevedono, di routine, ECG di base, ECG dopo sforzo (scalino con calcolo dell’IRI e/o ergometria); qualora dall’esame obiettivo cardiaco o da quello strumentale di base, risultasse un sospetto o una patologia in atto si farà ricorso ad altre indagini che, a seconda dei casi, comprenderanno lo studio ecocardiografico (Ecocardiografia), il monitoraggio dell’elettrocardiogramma per 24 ore (secondo la metodica di Holter) o i più complessi e sofisticati studi sui Potenziali Tardivi Ventricolari (PTV) con l’elettrocardiografia ad alta risoluzione, il Tilting Test e lo Studio Elettrofisiologico Transesofageo (SET) o Intracavitario (SETI).
L’Italia possiede una delle legislazioni più avanzate per la tutela sanitaria delle attività sportive, che obbliga l’atleta a sottoporsi ad un esame medico di idoneità quando questi voglia svolgere un’attività agonistica. La visita di idoneità, effettuata su individui presunti sani, svela molte volte patologie inaspettate e, allo stato attuale, rimane ancora l’unico metodo preventivo per la salute di giovani individui, che spesso effettuano la prima vera visita medica proprio in questa occasione.
L’esame della pericolosità dello sport praticato, per l’individuo che sceglie di intraprenderlo, è essenziale, per evitare fenomeni di morte improvvisa da sport (fenomeno comunque non frequente). Le cause di questa grave manifestazione sono estremamente variabili e dipendono dalla popolazione in esame.
Prevalgono le malattie congenite in età giovanile e quelle degenerative in età più avanzata, ad esempio: 1) la degenerazione della parete del ventricolo destro che si assottiglia e si dilata sottoponendo il soggetto a rischio di angina (esistono due forme di questa patologia, una geneticamente determinata, l’altra conseguenza di interventi chirurgici eseguiti in età giovanile). Tra gli atleti è responsabile del 22% dei decessi; 2) le aritmie, divise in atriali o ventricolari, oppure distinte in bradiaritmie, la cui evidenza è un rallentamento esagerato del battito cardiaco, e tachicardie, che provocano invece un’accelerazione anche esasperata del battito. Le forme atriali sono genericamente identificate come benigne, benché alcune siano estremamente invalidanti (ad esempio le tachicardie parossistiche). Difficilmente comunque queste patologie possono portare a morte improvvisa, a meno che non sussistano delle particolari anomalie nelle vie di conduzione, come la cosiddetta sindrome di Wolf Parkinson White (WPW), che provoca una desincronizzazione elettrica del ventricolo.
Morte improvvisa da sport
Quando la causa è ventricolare, solitamente all’origine c’è una malattia cardiaca. Nei giovani può essere una cardiopatia aritmogena del ventricolo destro, una cardiomiopatia ipertrofica, un’origine anomala delle coronarie, oppure una miocardite, il prolasso della valvola mitrale, o ancora una cardiomiopatia ischemica giovanile.
Esistono poi “morti cardiache aritmiche”, senza cioè che vi sia all’origine una causa organica, ma una alterazione genetica: ad esempio la Sindrome del QT lungo, oppure la Sindrome di Brugada.
In ogni caso, per mettere in allarme un cardiologo, soprattutto in questi casi, basta anche solo un elettrocardiogramma di base (ecco dove risiede l’importanza dei controlli periodici …).
SINDROME DEL QT LUNGO (Long QT syndrome – LQTS) – Frequenza : 1/5.000
Cos’è la sindrome del QT lungo?
Si tratta di una cardiopatia causata da alterazioni del “sistema elettrico” del cuore che riguardano in particolare il processo di ripolarizzazione, cioè il processo durante il quale il cuore si “ricarica” dopo ogni battito. Nei soggetti affetti il processo di ripolarizzazione richiede un tempo più lungo rispetto alla norma. La denominazione “sindrome del QT lungo” deriva dall’intervallo QT, un intervallo di tempo che si misura durante l’elettrocardiogramma, e che indica la durata del periodo di ripolarizzazione: questo intervallo di tempo è prolungato nei pazienti affetti.
Questa anomalia elettrica cardiaca predispone a perdite di coscienza (sincopi e svenimenti improvvisi) e aritmie (irregolarità del battito cardiaco), che possono causare anche morte improvvisa.
Qual è la causa della sindrome del QT lungo?
Le anomalie cardiache sono causate da alterazioni di alcune proteine responsabili del trasporto degli ioni potassio e sodio attraverso la membrana delle cellule cardiache, funzione fondamentale per il mantenimento della normale attività elettrica del cuore. I difetti di questi canali possono essere determinati su base genetica (nelle forme ereditarie della sindrome), ma possono anche essere causati dall’azione di alcuni farmaci.
Quali sono le cause genetiche della sindrome del QT lungo?
Tra le forme ereditarie di questa patologia si distinguono forme clinicamente molto simili tra loro ma causate da alterazioni (mutazioni) in geni diversi. Finora sono stati identificati almeno 5 geni, le cui mutazioni causano LQTS:
1) GENE – KCNQ1 o KvLQT1 CROMOSOMA – 11
PRODOTTO – canale per potassio PATOLOGIA – LQT1
2) GENE – KCNH2 o HERG CROMOSOMA – 7
PRODOTTO – canale per potassio PATOLOGIA – LQT2
3) GENE – SCN5A CROMOSOMA – 3
PRODOTTO – canale per potassio PATOLOGIA – LQT3
4) GENE – SCN5A CROMOSOMA – 3
PRODOTTO – canale per potassio PATOLOGIA – LQT3
5) GENE – KCNE1 CROMOSOMA – 21
PRODOTTO – canale per sodio PATOLOGIA – LQT5
6) GENE – KCNE2 CROMOSOMA – 21
PRODOTTO – canale per potassio PATOLOGIA – LQT6
Le mutazioni dei geni KCNQ1 e KCNE1 sono responsabili, quando il difetto è ereditato da entrambi i genitori (omozigosi – vedi oltre), della Sindrome di Jervell e Lange-Nielsen in cui all’allungamento dell’intervallo QT, si associa la sordità neurosensoriale congenita.
Come si trasmette la sindrome del QT lungo?
Generalmente la sindrome del QT lungo si trasmette con modalità autosomica dominante e viene indicata anche come “sindrome di Romano-Ward”, dai nomi degli scienziati che per primi descrissero questa patologia.
Nelle malattie ad eredità autosomica dominante una persona affetta ha un rischio pari al 50% di trasmettere la patologia ai propri figli, indipendentemente dal loro sesso.
La sindrome del QT lungo ha penetranza incompleta: questo significa che non tutti i soggetti che possiedono l’alterazione genetica manifestano i sintomi e i segni della patologia.
La “sindrome di Jervell e Lange-Nielsen” ha, invece, eredità autosomica recessiva: in questo caso possono nascere figli malati solo se entrambi i genitori sono malati o portatori sani del difetto genetico responsabile della malattia, e se il figlio eredita il difetto genetico da entrambi i genitori, presentando il difetto in doppia dose (omozigosi).
Come fa il medico a diagnosticare la sindrome del QT lungo?
La sindrome viene sospettata in seguito a perdita di coscienza o arresto cardiaco, e può essere causa di morte improvvisa.
Il primo accertamento utilizzato nella diagnosi è l’elettrocardiogramma, necessario per valutare la durata dell’intervallo QT:
– nel 60-70% delle persone affette l’elettrocardiogramma permette di rilevare un intervallo QT allungato;
– in circa il 12% dei pazienti l’intervallo QT a riposo è normale;
– nei restanti pazienti l’intervallo QT è apparentemente normale, o solo lievemente superiore alla norma.
Di conseguenza, per poter correttamente diagnosticare la patologia, all’elettrocardiogramma devono seguire un’attenta valutazione ed ulteriori accertamenti.
È possibile la diagnosi prenatale per LQT?
Perché sia possibile eseguire la diagnosi prenatale (con analisi del DNA fetale ottenuto da materiale prelevato mediante villocentesi o amniocentesi), è necessario che la mutazione responsabile della LQTS nella famiglia sia già stata identificata in precedenza in almeno un soggetto affetto.
Esiste una cura per la sindrome del QT lungo?
È generalmente utilizzata la terapia con farmaci betabloccanti. Si rivelano utili, anche in prospettiva futura, le informazioni relative ai geni responsabili della malattia:
– la forma LQT3 in cui è interessato il canale per il sodio, può essere trattata anche con bloccanti di questo canale;
– la forma LQT2 può essere trattata aumentando la concentrazione di potassio nel siero, con lo scopo di attivare il canale corrispondente.
In alcuni casi, quando la terapia farmacologica non garantisce la protezione necessaria, viene impiantato il defibrillatore, apparecchio che ha la funzione di interrompere un’aritmia pericolosa per la vita, dando una lieve scarica elettrica.
Chi è affetto da sindrome del QT lungo può praticare sport?
I pazienti che sono affetti da sindrome del QT lungo non possono praticare sport a livello agonistico. Un paziente, seguito presso il centro di riferimento e in condizioni di stabilità dell’elettrocardiogramma e, se necessario, in terapia betabloccante, può praticare un’attività fisica moderata e a regime controllato, sempre seguendo le indicazioni del cardiologo di fiducia che tenga sotto controllo regolarmente il paziente stesso.
Ci sono dei farmaci che possono provocare problemi alle persone affette da LQTS?
Alcuni farmaci possono provocare un prolungamento dell’intervallo QT, e sono quindi assolutamente da evitare in tutti i pazienti con sindrome del QT lungo. In letteratura sono stati descritti casi di arresto cardiaco in pazienti con mutazioni nei geni responsabili della LQTS, trattati con questo tipo di farmaci. Alcuni dei farmaci sono elencati di seguito. Si raccomanda, essendo l’elenco dei farmaci in continuo aggiornamento, di consultare sempre il centro di riferimento prima dell’assunzione di nuovi farmaci o di consultare il sito www.qtdrugs.org
Farmaci da evitare:
1) Classe degli ANTIBIOTICI
Principio attivo: Macrolidi (Eritromicina, Spiramicina, Claritromicina) e Bactrim (Trimetoprim + Sulfametossazolo)
2) Classe degli ANTIMICOTICI
Principio attivo: Miconazolo, Ketoconazolo
3) Classe degli ANTISTAMINICI
Principio attivo: Terfenadina, Astemizolo, Dimenidrinato, Ciproeptadina
4) Classe degli ANTIDEPRESSIVI TRI-QUADRICICLICI
Principio attivo: Fluoxetina (È consigliata particolare attenzione anche nell’uso di altri antidepressivi)
5) Classe dei NEUROLETTICI
Principio attivo: Risperidone Fenotiazine
6) Classe dei GASTROCINETICI ed ANTIEMETICI
Principio attivo: Cisapride, Domperidone, Metoclopramide
Cautela deve essere usata nell’uso di anestetici volatili. Si ricorda che in corso di anestesia per cure odontoiatriche si deve evitare la somministrazione di adrenalina.
Autore: M. Miorin (2001); Consulenza Scientifica prof.ssa S.G.Priori e dott.ssa R. Bloise (IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, Cardiologia Molecolare, PAVIA)
Ultimo aggiornamento: dicembre 2003
SINDROME DI BRUGADA (Brugada Syndrome, right bundle branch block, ST segment elevation and sudden death) – Frequenza : 1/5.000
Cos’è la sindrome di Brugada?
La sindrome di Brugada è una patologia genetica che può causare arresto cardiaco, anche in persone giovani e apparentemente in buona salute, e in assenza di alterazioni strutturali del cuore. Non sempre la malattia si presenta con un arresto cardiaco che richiede interventi di rianimazione. In alcuni casi infatti si verificano episodi sincopali (svenimenti) con ripresa spontanea dopo pochi secondi.
La sindrome si manifesta più frequentemente nei soggetti di sesso maschile ed è associata a rischio di morte improvvisa.
Come fa il medico a diagnosticare la sindrome di Brugada?
La diagnosi si basa su un’attenta valutazione dell’elettrocardiogramma, eseguito a riposo, in corso di attività fisica e durante il riposo notturno. In alcuni casi l’elettrocardiogramma appare normale e la sindrome risulta evidente solo dopo somministrazione di determinati farmaci che bloccano i canali del sodio, già alterati in questa patologia (ajmalina, flecainide, procainamide).
Quali sono le cause genetiche della sindrome di Brugada?
La malattia è determinata su base genetica e ad oggi è stato identificato un gene le cui alterazioni (mutazioni) causano la malattia. Questo gene si trova sul cromosoma 3 ed è indicato con la sigla SCN5A; le sue informazioni sono necessarie per la produzione di un canale del sodio che trasporta gli ioni sodio all’interno delle cellule cardiache ed è importante per la corretta attività elettrica del cuore.
Numerose persone affette da sindrome di Brugada non presentano mutazioni nel gene SCN5A: alterazioni in altri geni (per il momento non identificati) sono presumibilmente responsabili della malattia in queste persone.
Come si trasmette la sindrome di Brugada?
La sindrome di Brugada si trasmette come carattere autosomico dominante: una persona affetta presenta un rischio pari al 50% di trasmettere la patologia ai propri figli, indipendentemente dal loro sesso.
È possibile la diagnosi genetica della sindrome di Brugada?
Nelle persone affette è possibile eseguire la ricerca di mutazioni (alterazioni) nel gene SCN5A. L’identificazione della mutazione in un soggetto affetto permette di estendere l’analisi del DNA ad altre persone della famiglia, con lo scopo di rilevare soggetti asintomatici, ma portatori della mutazione.
Esiste una cura per la sindrome di Brugada?
Non esiste al momento una terapia farmacologica sicuramente efficace per la prevenzione degli episodi aritmici. Nei pazienti a più alto rischio di aritmie ventricolari gravi è possibile impiantare un “defibrillatore automatico” (ICD), un apparecchio simile ad un “pacemaker” in grado di riconoscere e correggere eventuali episodi di fibrillazione ventricolare. Il defibrillatore è quindi in grado di salvare la vita dei portatori di Sindrome di Brugada, qualora si verifichino episodi di aritmie potenzialmente fatali.
Autore: M. Miorin (2001); Consulenza scientifica: prof.ssa S.G. Priori e dr.ssa R.Bloise (IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, Cardiologia Molecolare, Pavia)
Ultimo aggiornamento: dicembre 2003
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ATTENZIONE: Le informazioni contenute in questa pagina hanno solo uno scopo divulgativo. Per questo, pur essendo state scritte da personale qualificato, non possono sostituire il parere del medico curante nelle decisioni e nelle scelte dei pazienti circa la propria salute.
Come detto in precedenza, la ricerca medica si sta impegnando per poter allargare la possibilità alla pratica sportiva a quante più persone affette da aritmie possibile. Naturalmente la difficoltà consiste nello stabilire quanto lo sport può essere pericoloso o meno per un cuore “aritmico”.
Per alcune di queste patologie la moderna aritmologia si può giovare anche di un intervento di ablazione transcatetere: le aritmie vengono riconosciute ed eliminate definitivamente con un intervento a torace chiuso. Attraverso speciali cateteri, che arrivano al cuore per via venosa, le aritmie vengono “bruciate” da una sorta di raggio in radiofrequenza, che provoca una piccola cicatrice nel cuore nel punto esatto in cui ha origine il circuito dell’aritmia.
A volte l’aritmia è un fenomeno transitorio dovuto a squilibri elettrolitici: in questi casi basta riequilibrare gli ioni e l’aritmia scompare.
Lo stesso discorso vale per le aritmie secondarie a miocarditi: una volta guarita l’infezione che le provoca, l’atleta può riprendere tranquillamente l’attività sportiva.
Altra causa di morte improvvisa può essere l’aterosclerosi coronaria: l’improvvisa ostruzione del vaso determina un infarto miocardio acuto, causa di un’aritmia con decorso fatale. Le malattie coronariche sono più frequenti nei soggetti di età superiore ai 30 anni. Nei giovani è più frequente un’anomalia dell’origine delle arterie coronarie (l’arteria coronaria sinistra nasce dal seno coronario destro e decorre al di sotto dell’arteria polmonare; conseguentemente il primo tratto di questa arteria può essere compresso durante l’attività sportiva determinando un meccanismo di ostruzione simile a quello che causa l’infarto del miocardio.
Altre patologie frequenti possono essere il prolasso della valvola mitrale o la miocardite. Quest’ultima è una potenziale complicanza di alcune infezioni da adenovirus, virus influenzali, che colpisce il muscolo cardiaco e può portare alla morte durante la pratica sportiva. Solitamente i sintomi sono simili a quelli dell’angina.
Quelle elencate finora sono tutte patologie “silenti”, vale a dire che non danno sintomi. Fa eccezione l’aterosclerosi coronarica determinata da restringimento di una o più arterie coronariche per effetto di una placca.
DEFIBRILLATORI AUTOMATICI IN CASA PER CARDIOPATICI
MORTE IMPROVVISA: A ROMA PRIMO STUDIO EUROPEO SULLA DEFIBRILLAZIONE DOMICILIARE (10/03/2003)
È stato presentato oggi a Roma il Primo Studio Europeo sulla defibrillazione domiciliare, che valuterà la fattibilità di un innovativo sistema di prevenzione del rischio di Morte Cardiaca Improvvisa dovuta ad arresto cardiaco tachiaritmico, che si verifica quando il cuore, battendo troppo velocemente, non riesce a pompare il sangue necessario all’organismo. Oltre alle Cardiologie e al 118, gli stessi familiari dei pazienti gestiranno il rischio e l’emergenza attraverso l’utilizzo di un defibrillatore automatico fornito dalle Aziende Ospedaliere e con una adeguata formazione. I coordinatori del progetto, il primo di questo genere in Europa, sono il professor Michele Pistolese, Past President del GIEC (Gruppo Italiano per le Emergenze Cardiologiche) e il professor Fulvio Bellocci, Primario di Cardiologia del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari dell’Università Cattolica del S. Cuore. “Partita su iniziativa del GIEC e del nostro Dipartimento, la sperimentazione coinvolge anche il Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Respiratorie della Sapienza, l’Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli, l’Ospedale San Giacomo e il Servizio di Emergenza 118” spiega il professor Bellocci. L’arresto cardiaco è un evento molto pericoloso: nel 95% dei casi il decesso avviene perchè l’intervento di defibrillazione, in grado di ripristinare il corretto ritmo cardiaco del paziente, non viene effettuato entro 5-6 minuti dalla perdita di coscienza. “La Morte Cardiaca Improvvisa è definita come una morte naturale che avviene istantaneamente ed inaspettatamente, dovuta ad una patologia cardiaca non nota, o nota ma stabile al momento della comparsa dei sintomi” spiega il professor Francesco Fedele, Direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Respiratorie, Università La Sapienza e Presidente GIEC “L’arresto cardiaco rappresenta oltre il 50% di tutti i decessi per malattie cardiovascolari; in Italia le percentuali di sopravvivenza si allineano con quelle più basse di altri Paesi europei e di alcune aree del Nord America” conclude il professor Fedele. Nello studio sulla Defibrillazione Domiciliare verranno arruolati pazienti che hanno avuto un infarto miocardico acuto e rispondono alle caratteristiche cliniche definite nel protocollo, che li collocano nel gruppo a rischio di morte improvvisa. Si stima che pazienti con caratteristiche simili in Italia siano oltre 200.000. In questa sperimentazione, la selezione oltre al paziente riguarda anche i familiari, attraverso un approccio psicologico “mirato” e con una valutazione delle capacità di intervento anche in rapporto alla loro età. “I familiari di pazienti a rischio si sentono investiti di una grave responsabilità che pesa quotidianamente su di loro” spiega il professor Bellocci. “Per questo, nell’ambito della Defibrillazione Domiciliare, è di fondamentale importanza l’esecuzione preliminare di test psicologici volti a saggiare la loro attitudine affettivo-comportamentale e il livello del loro automatismo operativo”. Altrettanto importante sarà l’addestramento dei familiari alla rianimazione cardiopolmonare di base e all’uso dei defibrillatori semiautomatici, portatili e di facile utilizzo, che verranno usati nello studio. Questi defibrillatori sono stati studiati appositamente per essere utilizzati anche da soccorritori laici oltre che dal personale sanitario; analizzano automaticamente il ritmo cardiaco del paziente e determinano se è necessaria l’erogazione di uno shock. I comandi vocali guidano il soccorritore nelle varie fasi dell’intervento. L’addestramento dei familiari al soccorso si svolgerà in ambito ospedaliero a piccoli gruppi e avrà una durata di 4-6 ore teorico pratiche. “Il follow up dello studio durerà un anno, perché la maggior parte delle aritmie letali si verifica entro 6/12 mesi dall’evento acuto” spiega il dottor Andrea Puglisi, Primario di Cardiologia dell’Ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli “Durante questo periodo il paziente sarà sottoposto ad osservazione clinica e strumentale periodica e i suoi familiari a colloqui medico psicologici mensili e a riaddestramenti trimestrali. Al termine dello studio, il defibrillatore verrà restituito al Centro che lo ha fornito al paziente”. I pazienti a rischio verranno inoltre inseriti nella rete del Servizio di emergenza sul territorio 118. “Solo un sistema integrato fra famiglie, Cardiologie e 118 può assicurare un intervento di soccorso mirato e tempestivo” assicura il dottor Mario Costa, Coordinatore Regionale S.E.S 118 Lazio “riducendo ulteriormente i margini di errore legati alla richiesta di soccorso dell’utente in situazione d’emergenza e assicurando l’invio di un equipaggio”. “Se come speriamo i risultati dello studio saranno positivi” conclude il professor Giuliano Altamura, Primario di Cardiologia all’Ospedale San Giacomo “si aggiungerà un ulteriore strumento alla lotta contro la morte cardiaca improvvisa. Tuttavia la diffusione della defibrillazione extraospedaliera è condizionata da altri fattori: una maggiore sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni sulle dimensioni del fenomeno e sugli strumenti a disposizione, lo stanziamento di risorse economiche e l’attuazione di interventi legislativi ad hoc. Solo a titolo di esempio: rendere obbligatoria l’installazione di defibrillatori in ambienti pubblici e aziende, modificando il Dlgs 626 sulla sicurezza o introdurre incentivi fiscali per pazienti che intendono acquistare un defibrillatore automatico”.
TRATTAMENTO DELL’IPERTENSIONE E LINEE GUIDA: NON SEMPRE È POSSIBILE RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI RACCOMANDATI
A cura di Cesare Albanese
Negli ultimi anni è stato dato ampio risalto alle linee-guida internazionali per la diagnosi ed il trattamento dell’ipertensione arteriosa anche nell’ambito della medicina generale. In particolare le attuali linee-guida, tra le molte raccomandazioni utili, riportano concordemente quelli che oggi sono considerati gli obiettivi sempre più rigorosi della terapia anti-ipertensiva, intesi come livelli di pressione arteriosa da raggiungere:
- inferiori a 140/90 mmHg nel paziente iperteso
- inferiori a 130/80 mmHg nella popolazione diabetica o comunque con rischio cardiovascolare aumentato.
Già nell’ampio studio PAMELA che aveva preso in considerazione un campione di individui nel Nord Italia, pubblicato dal gruppo del professor Mancia su un numero del Lancet dell’ormai lontano 1997, si metteva in evidenza quanto fosse deludente il risultato globale del trattamento anti-ipertensivo se si prendevano in considerazione gli stessi target di terapia: 1651 soggetti esaminati di età compresa tra 25 e 64 anni con una prevalenza di ipertesi del 37%, di cui solo 34% in trattamento e soltanto il 28% con valori di pressione arteriosa inferiori a 140/90 mmHg.
È trascorso più di un lustro e, nonostante l’attenzione sempre più ampia prestata dalla medicina al problema della cura dell’ipertensione arteriosa (basti pensare alla diffusione delle nuove linee-guida americane, europee, britanniche), i risultati non sembrano molto più brillanti. O almeno non se si fa riferimento alla valutazione degli obiettivi numerici di pressione arteriosa raggiunti con il trattamento nella casistica dei pazienti seguiti da medici di medicina generale, ai quali giustamente deve competere in prima battuta e nella maggior parte della popolazione la gestione della terapia. Soltanto un terzo dei soggetti trattati, infatti, raggiunge i livelli di pressione arteriosa desiderati.
Questo è quanto riportano gli autori inglesi di un editoriale nella rivista British Medical Journal, commentando i dati di un recente studio pubblicato sul Journal of Hypertension (J Hypertension 2004; 22: 1093-8).
Verso una comunicazione efficace di rischi e benefici
Nonostante la semplicità apparente del trattamento dell’ipertensione, i deludenti risultati globali sembrano essere legati al fatto che i rigorosi obiettivi suggeriti dalle linee-guida prevedono valori troppo bassi per la maggior parte dei pazienti (soprattutto per gli anziani); questo senza che compaiano effetti collaterali. Inoltre vi è da considerare il fatto che spesso il raggiungimento di questi valori comporta l’associazione di tre o più agenti anti-ipertensivi. Ciò significa che gli effetti avversi dei diversi farmaci si sommano e l’aderenza a schemi di trattamento con numerosi farmaci è sempre inferiore.
È necessario, poi, ricordare che la popolazione che arriva all’ambulatorio del medico di base è differente da quella dei trial clinici, da cui derivano le raccomandazione delle linee-guida: età più avanzata, maggior presenza di patologie associate, minore motivazione a terapie più sostenute, difficoltà nel comprendere gli obiettivi anche a lungo termine, maggior timore degli effetti collaterali dei farmaci.
Poiché l’autodeterminazione del paziente sembra rappresentare la difficoltà principale per il raggiungimento degli obiettivi riconosciuti se è vero, come sostengono gli Autori che “in pratica per la maggior parte degli ipertesi la pressione arteriosa può essere ridotta fino a che gli effetti avversi sono accettabili o finché si decida di sospendere l’aggiunta o la sperimentazione di altri farmaci”, un’arma efficace a disposizione del medico per raggiungere gli obiettivi terapeutici raccomandati sembra essere un maggiore coinvolgimento dei pazienti attraverso un’informazione e una comunicazione più completa sui reali “rischi” della patologia (anche utilizzando le note e semplici carte a disposizione) e “benefici” del trattamento (intesi come riduzione quantitativa del rischio).
- Campbell NC, Murchie P.: Treating hypertension with guidelines in general practice – BMJ 2004; 329: 523-524
- British Hypertension Society: Guidelines for management of hypertension: report of the fourth working party of the British Hypertension Society – 2004—BHS IV (Link in formato .pdf)
- European Society of Hypertension: European Society of Cardiology guidelines for the management of arterial hypertension – (Link in formato .pdf), 2003
- JNC 7: Express Report on Prevention, Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure – (Link in formato .pdf)
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