Indice Speciali

LO STRETCHING: UNA VISIONE CRITICA

Gian Nicola Bisciotti
Facoltà di Scienze dello Sport dell’Università di Lione (Francia)
Scuola Universitaria Interfacoltà in Scienze Motorie di Torino (Italia)
Preparatore atletico F.C. Internazionale (Italia)

INTRODUZIONE

Lo Stretching si può sicuramente annoverare tra le metodiche d’allenamento maggiormente utilizzate nell’ambito delle più svariate discipline sportive; la sua capillare diffusione non ha infatti conosciuto soste sino dal momento in cui la sua pratica è stata diffusa e razionalizzata sopratutto da Anderson (1), senza dubbio il più noto dei suoi promulgatori, tanto da esserne praticamente considerato come il “padre fondatore”. Ma anche altri Autori, come ad esempio Sölveborn (2), oppure Heyward (3) hanno contribuito alla sua promulgazione. Tuttavia, nonostante questo sua crescente diffusione e l’innegabile successo riscosso nella maggioranza delle discipline sportive, lo stretching è oggi l’oggetto di numerose controversie interpretative che ne stanno mettendo in discussione sia l’efficacia, che l’effettiva utilità. Il termine di “controversie interpretative”, non è stato utilizzato casualmente, in effetti molte delle divergenze di opinione sull’efficacia e l’utilità della pratica dello stretching, nascono da una diffusa “confusione concettuale” che molti dimostrano di avere nei confronti delle basi fisiologiche e metodologiche dello stretching stesso (4). Lo scopo di questa “review” è appunto quello di cercare, per quanto possibile, di fare chiarezza, in termini metodologici e fisiologici sullo stretching, mettendo a confronto le due “linee di pensiero dicotomiche” oggi esistenti a questo riguardo, soprattutto chiarendo sia “quello” che “quanto” sia giusto attendersi da una pratica regolare e razionale di questa metodica.

IL CONCETTO DI FLESSIBILITÀ

Per poter ben comprendere i meccanismi d’ordine fisiologico che sono alla base dello stretching, non ci si può esimere da una chiarificazione dal concetto di “flessibilità muscolo-articolare”. Per flessibilità muscolo-articolare s’intende la capacità di movimento di un muscolo e/o di un articolazione nell’ambito della loro totale estensione di movimento (full range of motion) (5, 6). Tuttavia, molto spesso il concetto di flessibilità viene assunto come sinonimo di elasticità, il che costituisce, da un punto di vista biomeccanico e fisiologico, un grossolano errore. Meccanicamente infatti l’elasticità è definibile come la proprietà di un corpo, che subisce una deformazione causata da una forza esterna, di riprendere, almeno parzialmente, la forma ed il volume iniziali. In ambito fisiologico quindi l’elasticità muscolo-tendinea è la capacità dell’unità muscolo-tendinea (UMT) di elongarsi nel corso della fase eccentrica del movimento (quindi possedere una sufficiente compliance) ed immediatamente dopo, grazie ad un adeguata rigidità (ossia stiffness), poter effettuare una repentina fase di contrazione concentrica, restituendo in tal modo, sotto forma di lavoro meccanico, l’energia elastica potenziale accumulata nel corso della fase eccentrica. L’elasticità muscolare è quindi il risultato di un giusto compendio tra la stiffness e la compliance del complesso muscolo tendineo, ed assume particolare importanza in tutti i movimenti che prevedano una fase eccentrica immediatamente seguita da una contrazione di tipo concentrico, ossia nel corso di un ciclo, allungamento-accorciamento (stretch-shortening cycle) (7, 8). Chiarito questo basilare concetto, appare ovvio come da un piano di lavoro basato sullo stretching, sia logico poter pensare di ottenere un aumento della compliance muscolare, in altre parole dell’estensibilità dell’UMT, e non della sua elasticità come molte volte si equivoca. Oltretutto è importante ricordare come non sempre un’aumento dell’estensibilità dell’UMT comporti parallelamente un aumento delle sue caratteristiche elastiche, molto spesso infatti si verifica l’esatto contrario (7, 8).

LE BASI FISIOLOGICHE DELLO STRETCHING: la resistenza meccanica all’elongazione

Nel corso dell’allungamento muscolare si distinguono due fasi: nella prima l’allungamento sarebbe pressoché totalmente a carico dei miofilamenti di actina e miosina che si presentano facilmente elongabili, mentre nel corso della seconda sono i filamenti di titina a ricoprire il ruolo principale nell’allungamento della fibra muscolare, divenendo i principali responsabili dell’elongazione del sarcomero e quindi della resistenza che quest’ultimo presenta nei confronti dell’allungamento stesso, definita con il termine di “resting tension”(5, 6). Una caratteristica costante dell’architettura muscolare è costituita dalla posizione centrale dei filamenti di miosina all’interno delle due linee Z, questa posizione è mantenuta anche quando il sarcomero è allungato, come durante lo stretching. Questa centralità della posizione del filamento di miosina è resa possibile dalla presenza dei filamenti di titina. La titina è una proteina elastica di alto peso molecolare, da 2.5 a 3 dalton (9, 10) che costituisce una terza classe di filamenti, oltre a quelli di actina e di miosina, all’interno del muscolo scheletrico e rappresenta circa il 10% della massa totale della miofibrilla (11, 12). Ogni molecola di titina si estende dalla linea Z (ossia la parte finale del sarcomero) sino alla linea M (che costituisce la parte centrale del sarcomero stesso). La porzione di titina che si trova nella banda A (ossia l’area scura osservabile all’interno del sarcomero) si comporta come fosse rigidamente legata al miofilamento di miosina, mentre la regione della molecola di titina che è legata alla linea Z, presenta un comportamento di tipo elastico (13, 14, 15). Durante l’allungamento della fibra muscolare varierebbe quindi la lunghezza della porzione dei miofilamenti di titina connessi alla stria Z, al contrario durante la contrazione muscolare, l’accorciamento dei sarcomeri comporterebbe una detensione dei miofilamenti di titina stessi (6). Il comportamento meccanico della titina, potrebbe forse in parte spiegare la particolare estensibilità, od al contrario la tipica rigidità, di alcuni gruppi muscolari, tuttavia per poter dare una risposta certa a questo tipo di domanda si renderebbe necessario un ulteriore miglioramento degli attuali metodi d’indagine molecolare (5, 6). Alcuni studi hanno dimostrato che il sarcomero può essere allungato sino al 150% della sua lunghezza di riposo (12), anche se occorre sottolineare che simili allungamenti sono registrabili solamente nel corso di sperimentazioni effettuate in vitro, mentre nel muscolo in situazione di attivazione naturale, anche in atleti dotati di particolari doti d’estensibilità muscolare, è difficile registrare allungamenti del muscolo superiori al 140% (16). Quindi, gli elementi contrattili del muscolo, ossia i sarcomeri, non potrebbero ovviamente costituire un fattore limitante l’allungamento del muscolo stesso, quando quest’ultimo si trova in uno stato di rilassamento. In effetti, in tal senso il più importante fattore limitante sarebbe costituito dal tessuto connettivo che avvolge il muscolo nei suoi vari livelli di organizzazione architettonica (le fibre, i fasci e la totalità del ventre muscolare), ossia dall’endomisio, dal perimisio e dall’epimisio. Tuttavia, a questo proposito occorre comunque ricordare che alcuni Autori minimizzerebbero il ruolo del tessuto connettivo in quanto fattore limitante l’allungamento muscolare (17, 18) ed altri ancora indicherebbero la titina, ed i ponti actomiosinici residui, presenti anche in condizioni di rilassamento muscolare, come i maggiori fattori responsabili della tensione passiva del muscolo (19, 20, 21). Particolarmente interessanti a questo proposito, risulterebbero alcune sperimentazioni nelle quali si dimostrerebbe che la tensione passiva del muscolo non subirebbe nessun cambiamento sostanziale anche in assenza del sarcolemma e del tessuto connettivo (17) (endomisio, perimisio ed epimisio). Queste ipotesi sarebbero avvallate anche dal fatto che in seguito ad un lavoro di tipo eccentrico si verificherebbe un danneggiamento sia della titina, che della nebulina, una proteina ad alto peso molecolare implicata nella regolazione della lunghezza dei miofilamenti di astina (22). Ad avvalorare ulteriormente questa teoria concorrerebbe il fatto che, a 24 ore di distanza da un lavoro eccentrico, a carico del vasto esterno, si registrerebbe una diminuzione sia della titina, che della nebulina, pari rispettivamente al 30 ed al 15% (20, 21). Sempre a questo proposito, anche la desmina, un’altra proteina il cui compito sarebbe quello di mantenere i sarcomeri in parallelo, risulterebbe danneggiata in seguito a contrazioni eccentriche ripetute (23, 24). Alla luce di quanto sopra, apparirebbe quindi più che giustificato ipotizzare che il ruolo del tessuto connettivo, in quanto fattore limitante l’allungamento muscolare, possa essere sinora stato sovrastimato, mentre, al contrario, potrebbe assumere una maggior centralità nel fenomeno il ruolo ricoperto dalla struttura muscolare stessa.

Figura 1: Visione schematica dell’architettura del sarcomero in funzione dei miofilamenti di miosina, actina e titina

IL RUOLO DEGLI ORGANI TENDINEI DEL GOLGI E DEI FUSI NEUROMUSCOLARI

La muscolatura scheletrica possiede due diversi tipi di recettori nervosi: gli organi tendinei del Golgi (OTG) ed i fusi neuro muscolari (FN). Gli OTG, nei Vertebrati superiori sono degli organi di senso presenti nello spessore tendineo od a livello della giunzione muscolo-tendinea. Dal punto di vista anatomico, consistono in un gruppo incapsulato di minute fibre tendinee, riccamente innervate da fibre sensitive e dunque di tipo dendritico. Gli OTG risultano disposti in serie rispetto alle fibre muscolari e la loro funzione fisiologica è quella di rispondere alle variazioni di tensione del tendine causate dalla contrazione muscolare, oppure da stiramenti di tipo passivo, come ad esempio durante lo stretching. Tuttavia, occorre sottolineare che gli OTG, risulterebbero essere maggiormente sensibili alle tensioni generate dalla contrazione muscolare piuttosto che dall’allungamento passivo del complesso muscolo-tendineo (25, 26), per questo motivo la loro funzione assume un ruolo molto rilevante in tutte quelle tecniche di stretching, come ad esempio la facilitazione propriocettiva neuromuscolare, (PNF, tecnica che verrà descritta in seguito), che prevedano la contrazione del muscolo da allungare. Inoltre, è bene ricordare che per attivare gli OTG ed ottenere una risposta da questi ultimi, è necessario uno stretching particolarmente intenso. Gli OTG intervengono al fine di ridurre l’eccessiva tensione muscolare, attraverso un meccanismo che va sotto il nome di “inibizione autogenica” o di “riflesso miotatico inverso”, che si esplica sia attraverso un’azione inibitoria nei confronti della muscolatura agonista e di quella sinergica a quest’ultima, che tramite una facilitazione della muscolatura antagonista (26, 27, 28), durante questo compito gli OTG sono assistiti sia dai meccano-recettori articolari, che da quelli cutanei (26). Lo scopo ultimo dell’inibizione autogenica espletata dai OTG, è quello di esercitare quella che la maggioranza degli Autori definisce con il temine di “funzione protettrice” nei confronti del complesso muscolo-tendineo. Quest’ultimo infatti, potrebbe subire degli insulti traumatici nel caso in cui dovesse sopportare delle tensioni, attive o passive, eccessivamente elevate. Il processo contrario rispetto all’inibizione autogenica, viene definito con il termine di “disibinizione dei motoneuroni agonisti”, e consiste nella minimizzazione, o comunque nel ridimensionamento, dell’azione inibitrice dei OTG. Questo tipo di meccanismo, come suggerito da alcuni Autori (30), potrebbe assumere una notevole rilevanza nell’ambito della massimalizzazione delle capacità di forza esplosiva e di forza massimale dell’atleta. Le funzioni degli OTG, non sono tuttavia del tutto chiare: alcuni aspetti particolari, come ad esempio il meccanismo di feedback inibitorio della contrazione muscolare nell’ambito della propriocezione cosciente, andrebbero ulteriormente approfonditi (31). In ogni caso, il riflesso miotatico inverso, presenta delle importanti implicazioni nell’ambito dello stretching. Infatti, nel momento in cui un atleta mantiene una posizione di allungamento, esercita una notevole tensione a livello del gruppo muscolare interessato, se questa tensione fosse annullata, l’atleta potrebbe raggiungere delle posizioni di allungamento ancor maggiori. Utilizzando una metodica di stretching denominata “contrazione-rilassamento” (che verrà descritta in seguito), è possibile indurre un rilassamento nella muscolatura coinvolta, ottenendone un maggior allungamento. Se ad esempio si cerca di allungare un muscolo sino al punto in cui, un suo ulteriore allungamento, viene di fatto impedito dalla tensione esercitata sul muscolo stesso, un’ulteriore contrazione volontaria di quest’ultimo, per un periodo compreso tra i 6 ed i 15 secondi, induce gli OTG a promuovere il meccanismo di riflesso miotatico inverso, il cui effetto permetterà l’allungamento del muscolo al di là del punto critico precedentemente raggiunto.
I fusi neuromuscolari, sono organi di senso, presenti nei muscoli volontari e costituiti da un fascio di sottili fibre striate specializzate che vengono definite intrafusali, le cui estremità sono inserite nella guaina delle comuni fibre muscolari circostanti. Le fibre intrafusali sono innervate da assoni motori di tipo gamma e presentano due estremità sensoriali afferenti, una primaria e l’altra secondaria. Il fuso neuro-muscolare può essere considerato a tutti gli effetti come un recettore di tensione sensibile allo stiramento del muscolo; è stato individuato per la prima volta nella rana e successivamente confermato negli Amnisti (1). L’estremità primaria del fuso ha due tipi di risposta, una fasica e l’altra tonica, in altre parole, ha la capacità di rispondere sia ad un allungamento muscolare di tipo fasico , ossia dinamico, che di tipo tonico, al contrario, l’estremità secondaria ha la possibilità di rispondere solamente a stiramenti di tipo tonico (6). Il riflesso miotatico da stiramento (stretch reflex), di cui i fusi sono responsabili, è una risposta muscolare di tipo contrattile, nei confronti di un repentino ed inaspettato aumento della lunghezza del muscolo, rivolta alla sua salvaguardia strutturale. Questo tipo di meccanismo ha indotto molti autori, Anderson (1) tra i primi, ad indicare come potenzialmente pericolosi tutti quei tipi di allungamento muscolare effettuati sotto forma dinamica attraverso movimenti di tipo balistico e/o “rimbalzante”. Tuttavia, come vedremo in seguito, è innegabile che questi tipi di movimento, oggetto di questa sorta di “messa al bando demonizzante”, siano comunque parte integrante di molte discipline sportive, e che per questo motivo dovrebbero trovare una giusta collocazione nell’ambito di un programma specificatamente rivolto al miglioramento della flessibilità.

L’INNERVAZIONE RECIPROCA

Un qualsivoglia movimento, normalmente, prevede il coinvolgimento sia della muscolatura agonista, che di quella antagonista. I muscoli che effettuano il movimento stesso vengono definiti agonisti, mentre quelli che, da un punto di vista biomeccanico, mostrano un’azione opposta al movimento effettuato, vengono definiti con il termine di antagonisti. Così nel movimento di estensione dell’avambraccio sul braccio, il tricipite riveste il ruolo di muscolo agonista, mentre il bicipite interpreta quello di antagonista, in altre parole, mentre il tricipite si contrae, allo scopo di effettuare il movimento di distensione, il bicipite è rilassato. Questo tipo di pattern di attivazione neuro-muscolare è possibile grazie ad un meccanismo nervoso che viene definito con il termine di “innervazione reciproca”, con il quale s’intende la reciproca strategia collaborativa che, nell’ambito del movimento, la muscolatura agonista ed antagonista adottano. Da quanto sopra, scaturisce il concetto di “coattivazione” o “co-contrazione”, che sottintendono l’attivazione simultanea di due gruppi muscolari biomeccanicamante opposti, agonista ed antagonista, ad un elevato livello per il primo ed a un grado notevolmente inferiore per il secondo (32). A questo proposito, già nel 1925 Tilney e Pike (33), definirono la coordinazione muscolare come “un meccanismo dipendente principalmente dalla relazione di sincronia contrattile nei gruppi muscolari antagonisti”. In anni più recenti, diversi studi hanno fatto luce sui meccanismi di controllo, centrali e periferici, che sono alla base dei patterns di attivazione neuro-muscolare di agonisti ed antagonisti in numerosi tipi di movimento (34, 35, 36). Il meccanismo d’innervazione reciproca, è alla base di alcune tecniche di stretching particolarmente avanzate. In effetti la contrazione del muscolo antagonista può indurre un maggior rilassamento del corrispondente muscolo agonista che in quel momento viene sottoposto ad allungamento. Se ad esempio s’intende allungare il muscolo bicipite femorale, la contrazione del quadricipite, grazie al meccanismo indotto dall’innervazione reciproca, può comportare un maggior rilassamento del bicipite stesso, facilitandone l’allungamento.

IL RUOLO DEL TESSUTO CONNETTIVO

Il tessuto connettivo è un tessuto d’origine mesenchimale e svolge funzioni di sostegno, trofico e meccanico, e di connessione tra i vari organi e tra le loro parti. È costituito da una sostanza amorfa extracellulare di natura mucopolisaccaridica, detta matrice, da fibre, egualmente extracellulari, di natura proteica, soprattutto collagene, e da cellule con caratteristiche proprie, a seconda dei vari tipi di tessuto connettivo (fibrociti, condrociti, osteociti, ecc.). Il tessuto connettivo può essere classificato in alcune categorie particolari, in base alla sua struttura ed alle funzioni svolte. Sostanzialmente due tipi di tessuto connettivo possono costituire un fattore limitante il range di movimento di un atleta: il tessuto connettivo denso ed il tessuto connettivo elastico. Il primo è composto principalmente da collagene (2), mentre il secondo da tessuto elastico. Nelle strutture in cui prevale il tessuto connettivo denso, il range di movimento è limitato; al contrario, una struttura ricca di tessuto connettivale elstico, permette un ampio range di movimento. Attraverso un programma specifico, ed ovviamente all’interno di certi limiti, dato che le caratteristiche del tessuto connettivo presentano una certa plasticità, è possibile ottenere un miglioramento del range di movimento (6). Con il termine di “fascia”, tecnicamente, s’intendono tutti i tessuti connettivali di tipo denso che circondano il muscolo a vari livelli strutturali, ossia l’endomisio, il perimisio e l’epimisio. La resistenza opposta dal muscolo decontratto allo stiramento, è originata dalla resistenza del tessuto connettivale. Anche altre strutture anatomiche costituiscono dei fattori limitanti nei confronti dell’elongazione, oltre al tessuto connettivo, che rende conto del 41% della stiffness totale, la capsula articolare ad esempio è responsabile del 47% di quest’ultima, mentre i tendini e la pelle, rispettivamente del 10% e del 2% (37). Ciò nonostante, al fine di un possibile incremento del range di movimento, il tessuto connettivo merita una particolare attenzione per due sostanziali motivi, in primo luogo le fasce ed il muscolo presentano una maggior plasticità in termini di adattamento all’elongazione, in secondo luogo, dal momento che i tendini presentano una minore elasticità rispetto alle fasce muscolari, non è consigliabile indurre in questi un eccessivo rilassamento (38, 39). Sottoporre la struttura tendinea ad un eccessivo overstretching, può infatti comportare un eccessiva flessibilità che potrebbe a sua volta rivelarsi un fattore destabilizzante a livello articolare. Come comunque già ricordato precedentemente, il ruolo limitante del tessuto connettivo potrebbe essere di fatto sovrastimato (19, 20, 21), tuttavia alla luce delle attuali conoscenze occorrerebbero ulteriori approfondimenti sperimentali che chiarissero in modo inequivocabile il ruolo ricoperto dal tessuto connettivo stesso e dalla struttura muscolare nel corso dell’elongazione.

LA TRASMISSIONE DELLA TENSIONE MUSCOLARE AL TENDINE

È importante ricordare come la trasmissione della forza generata dal muscolo scheletrico al tendine, avvenga sia per via diretta, ossia in serie, che trasversalmente, come dimostrato da Patel e Lieber (40) e Huijing (41). Il collegamento tra le fibre di collagene del tendine e le miofibrille, avviene attraverso la lamina basale (3) e principalmente grazie a due gruppi proteici (42) la distrofina-distroglicano-laminina (come visibile nel riquadro A della figura 2) e la talina-vincolina-integrina-laminina (mostrato nel riquadro B). In entrambi i casi il contatto con la miofibrilla avviene grazie all’actina terminale.

Figura 2: Visione schematica della trasmissione della forza generata dal muscolo scheletrico al tendine

I POSSIBILI ADATTAMENTI CONSEGUENTI ALLA PRATICA DELLO STRETCHING

Molti Autori hanno cercato di dimostrare, o quantomeno ipotizzato, numerosi effetti adattivi conseguenti ad una regolare pratica dello stretching. I sette punti che seguono, sembrerebbero rappresentare, tra tutte le le ipotesi, quelle maggiormente accreditate e dimostrabili.

1 – Attraverso una pratica assidua e regolare dello stretching, il punto critico al quale s’innescherebbe il riflesso da stiramento, potrebbe essere “resettato” ad un livello superiore. Conseguentemente a ciò il muscolo si manterrebbe rilassato per livelli di allungamento superiori a quelli precedenti la pratica sistematica dello stretching. Questa ipotesi sarebbe supportata da alcuni indagini scientifiche che dimostrerebbero la plasticità adattiva del SNC nei confronti di una possibile modulazione della soglia dell’intensità della risposta del riflesso miotatico da stiramento, soglia che potrebbe essere sia accresciuta, che diminuita, grazie ad un training specifico (43).
2 – La pratica regolare dello stretching potrebbe favorire l’aumento del numero dei sarcomeri in serie che compongono le fibre muscolari. Questi nuovi sarcomeri si aggiungerebbero alle estremità delle miofibrille stesse e sarebbero i responsabili del possibile aumento della lunghezza del muscolo sottoposto ad un programma di stretching reiterato nel tempo (44, 45). Alcuni Autori, a questo proposito, avanzano l’ipotesi che i muscoli di contorsionisti ed acrobati posseggano fibre muscolari più lunghe e quindi un maggior numero di sarcomeri in rapporto alla media (46). Tuttavia questa ipotesi necessiterebbe ancora di ulteriori dimostrazioni sperimentali.
3 – Lo stretching potrebbe indurre un semipermanente cambiamento della lunghezza delle fasce che avvolgono il muscolo (epimisio, endomisio e perimisio) ma anche di tipi di tessuto, come il tendine, i legamenti ed il tessuto cicatriziale (6).
4 – Allo stretching si attribuisce la possibilità di aumentare il range di movimento passivo e l’estensibilità dei gruppi muscolari allenati. Tuttavia, numerose ricerche negherebbero che lo stretching permetta questo tipo di adattamento funzionale del muscolo grazie ad una diminuzione della sua stiffness; l’incremento dell’estensibilità muscolare, sarebbe infatti da attribuirsi piuttosto ad un aumento della tolleranza allo stretching stesso (stretching tolerance) (47, 48).
5 – Alcune ricerche dimostrerebbero che le cellule muscolari potrebbero operare un controllo, e conseguentemente modulare sia la stiffness che il proprio limite elastico, grazie all’espressione di una specifica isoforma di titina che costituirebbe una sua variante strutturale (12). Grazie a questo meccanismo adattivo, il muscolo tenderebbe ad iniziare la tensione ad una lunghezza sarcomerale maggiore, raggiungendo in tal modo il proprio limite elastico ad una lunghezza del sarcomero maggiore, sviluppando contestualmente una minor tensione. Questo tipo di controllo funzionale potrebbe in effetti essere influenzato dall’allenamento basato sullo stretching.
6 – Alcuni Autori avanzano l’ipotesi che lo stretching possa stimolare la produzione e la ritenzione di glicosaminoglicani (4), acido ialuronico (5) ed acqua. Questo permetterebbe una sorta di “lubrificazione” delle fibre del tessuto connettivale, che riuscirebbero in tal modo a mantenere tra loro una distanza ottimale impedendo di fatto l’eccessiva formazione di cross-linkages (49).
7 – Studi radiografici hanno dimostrato come l’allenamento specifico della flessibilità, in particolari categorie di atleti come i danzatori, possa indurre una modificazione a livello delle strutture articolari (50).

QUANTE E QUALI SONO LE TECNICHE DI STRETCHING?

Gli esercizi di stretching sono praticati attraverso innumerevoli modalità, soprattutto dettate dal grado d’allenamento dell’atleta a cui vengono proposti, nonché dalla specificità della disciplina sportiva praticata. È comunque possibile classificare lo stretching in sette categorie tecniche che prevedono modalità esecutive diverse tra loro:

– Lo stretching statico

Le tecniche di stretching statico, talvolta erroneamente confuse con quelle di stretching passivo, sono basate sul raggiungimento ed il mantenimento, per un certo lasso di tempo, della massima posizione di allungamento possibile da parte dell’atleta. Questo tipo di tecnica, che presenta delle forti attinenze con la tecniche praticate nella disciplina dello hatha yoga, presenta alcuni innegabili vantaggi che sinteticamente possono essere elencati nei seguenti punti:
– è sicura, di facile apprendimento e d’altrettanto semplice esecuzione
– richiede un dispendio energetico molto contenuto
– permette di by-passare la problematica inerente il riflesso da stiramento
– se praticata in modo sufficientemente intenso, può indurre un rilassamento muscolare riflesso indotto dall’azione degli OTG
– permette dei cambiamenti strutturali, in termini d’elongazione, di tipo semi-permanente.
Il principale svantaggio che lo stretching statico presenta, è la sua mancanza di specificità. In effetti la maggior parte delle discipline sportive contempla dei movimenti dinamici di tipo balistico, durante i quali l’UMT deve sopportare delle elongazioni violente e repentine. Lo stretching statico, pertanto, si presenta come scarsamente specifico nei confronti di tali situazioni. Inoltre, occorre ricordare come il muscolo possegga due tipi recettori, di cui i primi misurano sia la velocità che la lunghezza dell’elongazione, mentre i secondi sono sensibili solamente ai cambiamenti di lunghezza; per questa ragione gli esercizi d’allungamento statico andrebbero complementati con quelli basati sull’allungamento dinamico (51). Un’ulteriore problematica legata all’utilizzo, ma forse sarebbe più appropriato il termine di abuso, dello stretching statico, è costituita dal suo possibile effetto negativo sulla produzione di forza muscolare. Le capacità contrattili del muscolo sottoposto ad un eccessivo carico d’allungamento, verrebbero infatti diminuite a causa sia di un cambiamento della “damping-ratio muscolare” (ossia della capacità da parte del muscolo di assorbire e dissipare lo shock derivante da un carico esterno imposto), che della sua stiffness (52).

– Lo stretching passivo

Nello stretching passivo, l’atleta è completamente rilassato e non partecipa attivamente al raggiungimento dei diversi gradi del ROM (range of motion), che invece sono raggiunti grazie all’applicazione di forze esterne create manualmente, come nel caso d’aiuto da parte di un terapista o di un compagno, oppure meccanicamente, grazie ad una strumentazione specifica. Questo tipo di tecnica è normalmente utilizzata in ambito riabilitativo, soprattutto nel caso in cui l’estensibilità del muscolo sottoposto ad allungamento sia limitata dall’azione degli antagonisti e dal tessuto connettivo. Tra i vantaggi che l’allungamento passivo presenta possiamo elencare:
– la sua efficacia nel caso in cui i muscoli preposti all’allungamento attivo, ossia la muscolatura agonista, risultino troppo deboli per poter svolgere detto compito
– si dimostra particolarmente efficace, quando altri tentativi, effettuati con differenti tecniche d’allungamento, hanno fallito nel tentativo di ridurre le tensioni muscolari presenti
– permette un allungamento che può andare al di là del ROM attivo.
Tra i possibili rischi dell’allungamento passivo, possiamo annoverare il rischio di lesione che può presentarsi nel caso in cui la differenza tra il range di flessibilità attiva e quello di flessibilità passiva sia cospicuo (53), come è possibile osservare in Figura 3. Inoltre, dal momento che il livello di flessibilità passiva non risulta correlato con il livello di attività sportiva (53), quest’ultima deve necessariamente essere supportata da un parallelo programma di lavoro costituito da esercizi di flessibilità attiva.

Figura 3: Se la differenza tra il range di flessibilità attiva (riquadro A) e quello di flessibilità passiva (riquadro B) risulta eccessiva, può aumentare il rischio di lesione durante l’allungamento passivo

– Lo stretching balistico e lo stretching dinamico

Lo stretching balistico prevede una tecnica esecutiva di tipo ritmico e “rimbalzante”, il cui scopo è quello di forzare il movimento stesso verso i limiti massimi del ROM. Questa metodologia di allungamento è la più criticata, vista la sua potenziale pericolosità in termini di possibili danni muscolari provocabili. I principali svantaggi di questo tipo di pratica sono:
– l’esiguità del tempo d’allungamento non permette di fatto un adeguato adattamento dei tessuti nei confronti dell’elongazione stessa
– la repentinità dell’allungamento comporta il manifestarsi del riflesso miotatico da stiramento, che a sua volta comporta un’obiettiva difficoltà nell’ottenere una soddisfacente elongazione del tessuto connettivale.
Soprattutto per questi motivi, di norma si preferisce adottare uno stretching dinamico piuttosto che di tipo balistico. La sostanziale differenza tra queste due metodologie di lavoro è costituita dal fatto che nello stretching dinamico, al contrario di quello balistico, il movimento non prevede un’esecuzione “rimbalzante” e che, soprattutto nella fase finale dell’esercizio, la velocità esecutiva globale è molto più controllata. Un’ulteriore differenza tra stretching dinamico e stretching balistico, consiste nel fatto che, nel primo caso il movimento è eseguito in modo controllato sino ai limiti del proprio ROM, mentre nel secondo si cerca di forzare il movimento stesso oltre il ROM naturale. Tuttavia bisogna sottolineare, che per ottenere il massimo vantaggio da un programma rivolto alla flessibilità, occorre che gli esercizi proposti siano velocità-specifici, in altre parole è necessario che la velocità d’allungamento adottata nel programma di stretching, sia la più sovrapponibile possibile a quella che si riscontra durante l’esecuzione dei gesti tecnici specifici nell’ambito della disciplina praticata. In osservanza a questo presupposto quindi, lo stretching balistico, nonostante la sua potenziale pericolosità, presenterebbe una maggiore specificità rispetto a quello dinamico. Una soluzione di “compromesso ideale” in tal senso, sembrerebbe essere quella proposta da Zachazewski (54), il quale consiglia l’adozione di un programma di stretching a velocità di flessibilità progressiva (PVFP, progressive velocity flexibility program), preceduto da un’adeguata fase di riscaldamento. In pratica, si tratta di adottare un programma di lavoro in cui, la velocità e l’ampiezza dell’allungamento vengono aumentate progressivamente, permettendo in tal modo un graduale adattamento delle strutture muscolo-tendinee, arrivando quindi ad affrontare i movimenti di stretching balistico minimizzando il rischio d’incidente.

– Lo stretching attivo

Lo stretching attivo, altrimenti definito anche con il termine di stretching attivo/statico, è basato sull’utilizzo di tecniche che comportano il raggiungimento, ed il conseguente mantenimento, della massima posizione di allungamento, conseguita unicamente grazie ad una contrazione muscolare attiva. Le tecniche di stretching attivo, quindi escludono qualsiasi intervento esterno che assista o favorisca il raggiungimento e/o il mantenimento della posizione desiderata. Inoltre lo stretching attivo può essere ulteriormente suddiviso in altre due categorie, la prima denominata “totalmente attiva” e la seconda “resistiva”. Nella prima categoria ritroviamo esclusivamente tecniche effettuate senza l’aggiunta d’alcuna resistenza, mentre la seconda prevede l’applicazione di una resistenza esterna nel corso dell’esecuzione dell’esercizio d’allungamento. Entrambi i tipi di tecniche sono in grado d’aumentare sia la flessibilità, che la forza della muscolatura agonista. È altresì importante ricordare che, durante l’esecuzione di un’esercitazione di stretching attivo, la tensione della muscolatura agonista contribuisce al rilassamento della muscolatura antagonista (ossia quella sottoposta ad allungamento), grazie al fenomeno dell’inibizione reciproca. Lo stretching attivo si dimostra particolarmente interessante soprattutto per il fatto che la flessibilità dinamica in tal modo sviluppata, dimostra un’attinenza molto maggiore nei confronti del risultato sportivo specifico, rispetto alla flessibilità di tipo passivo (53). Negli ultimi anni ha preso piede una versione modificata dello stretching attivo, denominata stretching attivo-assitito, nella quale il ROM viene ulteriormente aumentato grazie all’intervento di un compagno o di un’apparecchiatura esterna. Tuttavia, lo svantaggio che le tecniche di stretching attivo presentano, è costituito dall’innesco del riflesso miotatico da stiramento e dalle possibili problematiche ad esso connesse.

– Lo stretching isometrico

Lo stretching isometrico è un tipo di tecnica che comporta la contrazione isometrica della muscolatura sottoposta ad allungamento, più specificatamente questo tipo di allungamento si compone di tre parti distinte:
– inizialmente si assume la posizione di stretching passivo desiderata
– si effettua una contrazione isometrica contro una resistenza esterna inamovibile (generalmente un compagno, oppure il pavimento od una parete) per un periodo di tempo normalmente compreso tra i 7 ed i 15 secondi
– infine si rilassa il muscolo contratto in precedenza per un ulteriore periodo della durata di perlomeno 20”.
Lo stretching isometrico è considerato come una delle migliori ed efficaci tecniche rivolte allo sviluppo della flessibilità statico-passiva e si dimostra normalmente maggiormente efficace dello stretching attivo o passivo utilizzati singolarmente (55). Inoltre questo tipo di tecnica contribuirebbe notevolmente alla diminuzione della sensazione dolorosa associata all’allungamento (55). Tuttavia, dato che il forte allungamento muscolo-tendineo che la contrazione isometrica produce, può costituire un fattore di rischio per l’integrità tendinea e connettivale, è sconsigliabile ai bambini ed agli adolescenti (55).

– PNF stretching

Allo stato attuale delle conoscenze il PNF stretching, è considerato come la miglior tecnica grazie alla quale è possibile massimalizzare la flessibilità statico-passiva. In realtà il PNF stretching (PNF è l’acronimo di Facilitazione Propriocettiva Neuromuscolare), costituisce una combinazione tra lo stretching passivo e quello isometrico. Il principio di base di queste tecniche si basa sull’allungamento passivo del gruppo muscolare considerato, che viene in seguito contratto isometricamente contro una resistenza inamovibile ed in ultimo nuovamente allungato passivamente grazie all’intervento di un compagno o del fisioterapista, raggiungendo in tal modo un ROM accresciuto. Le tecniche di PNF stretching maggiormente utilizzate sono:
La tecnica di contrazione rilassamento (CR): nella tecnica di CR, anche denominata hold-relax technique, il muscolo antagonista viene prima allungato passivamente dall’operatore, in seguito viene richiesta all’atleta una contrazione isometrica della muscolaura allungata contro la resistenza fornita dall’operatore della durata di circa 7-15 secondi, dopo di che il muscolo viene brevemente rilassato per 2-3 secondi ed infine nuovamente allungato passivamente per circa 10-15 secondi. La pausa che occorre rispettare tra due tecniche di CR consecutive è di circa 20 secondi. L’assunto fisiologico su cui si basa la tecnica di CR, è costituito dal fatto che la contrazione isometrica dell’antagonista è in grado di promuovere, grazie all’azione inibitrice degli OTG, una successiva fase di rilassamento durante la quale è possibile incrementare passivamente il ROM. Alcuni Autori (56), suggeriscono che, dal momento che la fase di massimo rilassamento muscolare è limitata ai primi 5 secondi che seguono la contrazione isometrica, l’allungamento passivo dovrebbe essere inserito subito dopo quest’ultima e comunque entro i primi 5 secondi post-contrazione. Gli stessi Autori indicano che in effetti la fase di massimo rilassamento durerebbe circa 1 secondo e comunque un sostanziale incremento del ROM, sia registrabile entro un massimo di 5 secondi dopo la fase di contrazione.
La tecnica contrazione-rilassamento-contrazione (CRAC): questa tecnica, conosciuta anche come hold-relax-contract oppure contract-relax-antagonist-contract, comporta, dopo una prima fase di allungamento passivo, due contrazioni isometriche, la prima dell’antagonista e la seconda a carico dell’agonista, in seguito, come nella tecnica precedente, si effettua un’ultima fase di allungamento passivo. Il razionale scientifico su cui si basa la tecnica CRAC è costituito sempre dal principio neurofisiologico dell’inibizione reciproca, secondo il quale la contrazione dell’agonista comporterebbe un ulteriore rilassamento dell’antagonista (ossia del muscolo sottoposto ad allungamento). La tecnica CRAC è in grado, secondo alcuni Autori (57), di garantire il maggior guadagno in termini d’incremento del ROM, anche se occorre non sottovalutare la sensazione di dolore che è possibile indurre nel paziente.
La tecnica mantenimento-rilassamento-oscillazione (hold-relax-swing technique): sia questo tipo di stretching, che un’altra tecnica similare, denominata mantenimento-rilassamento-rimbalzo (hold-relax-bounce technique), costituiscono due metodi di lavoro simili alla già descritta tecnica di CR. La differenza risiede nel fatto che, in questi due tipi di stretching, la parte finale di allungamento passivo è sostituita da una fase di stretching balistico. La potenziale pericolosità insita in questi tipi d’allungamento non è da sottovalutare, ed in ogni caso, queste sono da considerarsi come delle tecniche proponibili solamente ad atleti che abbiano raggiunto un notevole grado di sensibilità e controllo del riflesso miotatico da stiramento, come ad esempio i ginnasti od i ballerini. Per ciò che riguarda la giustificazione fisiologica che è alla base delle tecniche di PNF, ossia in particolare l’inibizione del riflesso miotatico da stiramento ed il fenomeno dell’inibizione reciproca, è interessante notare che alcuni Autori ipotizzerebbero che il rilassamento indotto da tali tecniche sia piuttosto da ricondursi a cause di tipo miogeno piuttosto che neurogeno (19, 58). In altre parole si ribadirebbe il ruolo centrale ricoperto dai ponti actomiosinici nella tensione passiva del muscolo. Occorre anche sottolineare che la risposta del muscolo nei confronti dell’allungamento, dipende dalle condizioni temporali precedenti l’allungamento stesso, in altre parole la risposta muscolare all’allungamento sarebbe diversa in funzione del fatto che il muscolo sia stato precedentemente allungato oppure contratto (19). Anche l’ampiezza dello stiramento potrebbe comportare un diverso tipo di meccanismo inibitorio, allungamenti di ampiezza ridotta comporterebbero infatti una diminuzione dell’eccitabilità dovuta ad un meccanismo inibitorio di tipo pre-sinaptico, mentre allungamenti di ampiezza maggiore vedrebbero il verificarsi di un meccanismo inibitorio post-sinaptico (59). Tuttavia, alcuni Autori (60, 61) sottolineano il fatto che nel corso di un allungamento, al di là del fatto che il soggetto cerchi effettivamente il massimo rilassamento muscolare, si verifichi comunque una contrazione muscolare di tipo eccentrico, confermata da un elevata attività elettromiografica, ed inoltre come questa tensione muscolare sia ancor maggiore durante le tecniche di PNF.

LE APPLICAZIONI PRATICHE DELLO STRETCHING

Al di là d’ogni possibile polemica o divergenza interpretativa, lo stretching rimane in ogni caso una delle metodiche d’allenamento maggiormente utilizzate in ambito sportivo. È quindi legittimo domandarsi le ragioni per cui sia giustificato un suo sistematico utilizzo e soprattutto, quali siano i vantaggi pratici ricavabili da quest’ultimo. Affronteremo quelli che sono a nostro avviso i quattro campi di maggior possibile intervento dello stretching, ossia il riscaldamento, la prevenzione degli incidenti muscolari, l’influenza sulla prestazione e la possibilità di diminuire il dolore muscolare tardivo (delayed muscle soreness).

– Stretching e riscaldamento

La temperatura ideale alla quale il muscolo ottimizza le proprie caratteristiche visco-elastiche, è all’incirca di 39° C, a questa temperatura diminuisce infatti la viscosità dei tessuti, migliora l’elasticità dei tendini, si aumenta la velocità di conduzione nervosa e si modifica positivamente l’attività enzimatica, inoltre l’innalzamento della temperatura muscolare costituisce un’efficace misura preventiva nei confronti degli infortuni riducendo i rischi di stiramento o strappo muscolare (8). Lo stretching è largamente utilizzato nell’ambito del riscaldamento tuttavia, secondo alcuni Autori, la sua possibile efficacia nel provocare un innalzamento della temperatura del muscolo, sarebbe molto discutibile (21), tanto che alcuni studi dimostrerebbero addirittura un suo effetto negativo in questo senso (6). In effetti, occorre ricordare che, in ultima analisi, il tipo d’azione muscolare che ritroviamo nel corso dello stretching è praticamente sovrapponibile a ciò che avviene in una contrazione eccentrica (60). Dal momento che nel corso di una contrazione di tipo eccentrico, la vascolarizzazione muscolare viene interrotta ed il lavoro svolto diviene in tal modo di tipo anaerobico, determinando un aumento dell’acidosi, oltre ad una marcata anossia cellulare (62), è facilmente comprensibile come lo stretching non possa essere considerato come il mezzo d’elezione nell’ambito del riscaldamento. Utilizzare lo stretching come mezzo esclusivo sul quale basare il riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento, sembrerebbe quindi sicuramente insufficiente e scorretto. Tuttavia, integrare razionalmente lo stretching in uno schema di riscaldamento basato soprattutto su altri tipi d’esercitazione, maggiormente efficaci nel far aumentare la temperatura interna del muscolo, come un’idonea alternanza di contrazioni e rilassamenti, è sicuramente la scelta più corretta.

– Stretching e prevenzione dei danni muscolari

Il meccanismo maggiormente correlato al possibile danneggiamento della fibra muscolare, risulterebbe essere la contrazione di tipo eccentrico (63, 64, 65, 66). La ragione della maggior incidenza traumatica a livello muscolare, riscontrabile durante una situazione di contrazione eccentrica, è con ogni probabilità imputabile alla maggior produzione di forza registrabile nel corso di quest’ultima, rispetto a quanto non avvenga nella modalità di attivazione di tipo concentrico od isometrico (65, 67). Infatti durante una contrazione eccentrica, effettuata alla velocità di 90° * s-1, la forza espressa dal distretto muscolare risulta essere di ben tre volte maggiore di quella espressa, alla stessa velocità, durante una contrazione concentrica (62). Inoltre, durante una contrazione eccentrica, risulta maggiore anche la forza prodotta dagli elementi passivi del tessuto connettivo del muscolo sottoposto ad allungamento (68). Soprattutto in riferimento a questo dato, occorre sottolineare come anche il fenomeno puramente meccanico dell’elongazione possa giocare un ruolo importante nell’insorgenza dell’evento traumatico, visto che quest’ultimo può verificarsi, sia in un muscolo che si presenti attivo durante la fase di stiramento, come in un distretto muscolare che sia passivo durante la fase di elongazione (69). Durante la contrazione eccentrica il muscolo è in effetti sottoposto ad un fenomeno di “overstretching” che, in quanto tale, può determinare l’insorgenza di lesioni a livello dell’inserzione tendinea, della giunzione muscolo-tendinea, oppure a livello di una zona muscolare resa maggiormente fragile da un deficit di vascolarizzazione (62). È interessante notare come siano i muscoli biarticolari quelli maggiormente esposti ad insulti traumatici, proprio per il fatto di dover controllare, attraverso la contrazione eccentrica, il range articolare di due o più articolazioni (70). Anche la diversa tipologia delle fibre muscolari presenta una differente incidenza di evento traumatico. Le fibre di tipo FT, sono infatti maggiormente esposte a danni strutturali rispetto alle ST, probabilmente a causa della loro maggior capacità contrattile, che si traduce in un’accresciuta produzione di forza e di velocità di contrazione, rispetto alle fibre di tipo ST (69, 71). Inoltre i muscoli che presentano un’alta percentuale di FT, sono generalmente più superficiali e normalmente interessano due o più articolazioni (72), fattori entrambi predisponenti al danno strutturale (65, 70). Inoltre è interessante notare come l’insulto traumatico sia prevalentemente localizzato a livello della giunzione muscolo-tendinea, a testimonianza del fatto che in questa zona, come del resto nella porzione finale della fibra muscolare, si verifichi il maggior stress meccanico (23, 65, 69, 73, 74, 75). Per tutta questa serie di motivi lo stretching è stato sempre considerato come la miglior forma di prevenzione nei confronti dei danni muscolari. Tuttavia recentemente numerosi Autori, a seguito di protocolli di studio specifici effettuati su campionature cospicue, non hanno rilevato alcun beneficio, derivante da una pratica assidua e regolare dello stretching , nei riguardi della prevenzione dei danni all’UMT (76, 77, 78). Una possibile spiegazione di questa mancanza di correlazione tra capacità d’elongazione del muscolo e diminuzione degli incidenti muscolari, potrebbe risiedere nel fatto che in effetti lo stretching provoca una sorta di effetto antalgico, che va sotto il nome di “stretch-tolerance”, nei confronti dell’allungamento stesso (79, 80). La pratica dello stretching indurrebbe quindi una diminuzione della sensazione dolorosa indotta dall’allungamento, data da un aumento della soglia dei nocirecettori, permettendo in tal modo all’atleta di sopportare allungamenti muscolari di maggiore entità, situazione che potrebbe anche paradossalmente aumentare il rischio di traumatismi a livello muscolare. Sempre per ciò che concerne l’effetto di “stretch-tolerance”, è interessante notare che alcune tecniche di allungamento , come ad esempio lo “stretch and spray” (81), trovano il loro razionale scientifico sull’effetto antalgico indotto dall’applicazione del freddo e dalla conseguente maggior tolleranza dell’atleta nei confronti dell’allungamento. La considerazione finale sull’incidenza dello stretching sul rischio d’incidenti a livello muscolo-tendineo è che comunque l’eziologia di tali eventi traumatici sia talmente multifattoriale da rendere improbabile l’ipotesi che in questo campo la pratica dello stretching possa costituire una sorta di “panacea”, è molto più plausibile ed obiettivo considerare lo stretching come uno dei mezzi utilizzabili nell’ambito di un razionale piano rivolto alla prevenzione degli incidenti muscolari.

– Stretching e prestazione

Sono molti gli studi ritrovabili in bibliografia che documentano, in seguito ad una precedente seduta di stretching, una diminuzione della prestazione di sprint (21, 82), una perdita della capacità di forza massimale (83, 84, 85) e di resistenza alla forza (86), oppure di capacità di salto, e quindi della possibilità da parte dell’UMT di accumulare energia elastica nel corso della fase eccentrica del movimento e di restituirla, sotto forma di lavoro meccanico, durante la fase concentrica dello stesso (87, 88, 89, 90, 91). Questa perdita della capacità prestativa in seguito ad un seduta di stretching, che comunque deve necessariamente essere di una certa intensità, trova sostanzialmente tre tipi di spiegazione.
In primo luogo, occorre sempre considerare il fatto che l’allungamento è, da un punto di vista biomeccanico, assimilabile ad una contrazione di tipo eccentrico, la cui intensità può raggiungere livelli di tipo massimale (21). Per questo motivo, facendo precedere alla prestazione, una seduta di stretching particolarmente intensa, si corre sia il rischio di produrre dei danni alla struttura muscolare, in particolare a livello dei miofilamenti di titina (71, 82, 92), che d’incorrere in un fenomeno di affaticamento muscolare (82, 91), in entrambi i casi la performance ne risulterebbe ovviamente perturbata.
Un secondo fattore che potrebbe, perlomeno parzialmente, spiegare il fenomeno, è costituito dal fatto che un’eccessiva sollecitazione in allungamento di alcuni gruppi muscolari a discapito di altri, potrebbe costituire un fattore di perturbazione della coordinazione sia tra gruppi muscolari sinergici, che tra agonisti ed antagonisti (6, 7).
Un ultimo, ma non per questo meno importante, fattore è costituito dal fatto che il tendine, nel corso di un allungamento di una certa intensità e durata, attraversa una fase di riorganizzazione delle proprie fibre di collagene che vengono riorientate meno obliquamente di quanto non fossero nella precedente fase di riposo. Questo fenomeno va sotto il nome di “creeping” e comporta una diminuzione delle capacità del tendine, nel corso di un ciclo stiramento-accorciamento, di poter accumulare e restituire energia elastica (20, 93). Dal momento che il tendine è il maggior interprete del fenomeno di risposta elastica, quest’ultimo fattore potrebbe assumere un ruolo determinante nella diminuzione delle capacità di salto registrabile in seguito ad una precedente intensa seduta di stretching.

– Stretching e prevenzione del “delayed muscle soreness”

Il fenomeno del “delayed muscle soreness”, successivo ad un allenamento di tipo eccentrico ha un origine metabolica e meccanica ben precisa, è quindi molto probabile che la pratica dello stretching non abbia un’influenza di tipo positivo sul fenomeno in questione. Anzi, alcuni Autori sostengono che una seduta di stretching particolarmente intensa provochi gli stessi danni muscolari, e quindi la stessa sensazione dolorosa, di una seduta di forza eccentrica (21, 94). In bibliografia è comunque possibile ritrovare alcuni lavori che testimonino di come né una seduta di stretching effettuata prima di una seduta d’allenamento eccentrico (95, 96), oppure durante (82), o dopo (96, 97) la stessa, sia in grado di diminuire la sensazione dolorosa percepita dagli atleti nell’ambito delle 24-48 ore susseguenti alla sessione di lavoro. Utilizzare dunque lo stretching a questo scopo sembrerebbe ingiustificato.

CONCLUSIONI

Fermo restando che molti punti, sia di ordine meccanico, che metabolico e neurogeno, che costituiscono il razionale scientifico dello stretching meriterebbero ulteriori approfondimenti scientifici, alla luce delle attuali conoscenze è possibile sottolineare i seguenti punti:

Lo stretching non è il miglior mezzo sul quale basare la fase di riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento; questo non significa assolutamente che non possa trovare di diritto una collocazione in quest’ambito, ma che al contrario debba essere integrato in un piano di riscaldamento basato essenzialmente su esercitazioni di tipo dinamico, che si rivelano senz’altro più adatte ad ottenere un’idoneo innalzamento della temperatura muscolare sino al raggiungimento dei suoi livelli ideali.
La quantità e l’intensità dello stretching proposto durante la fase di riscaldamento pre-gara, deve essere accuratamente gestita e dosata, al fine di non incorrere in un possibile scadimento della prestazione. Nell’ambito di discipline sportive come alcune specialità dell’atletica leggera, la pallavolo od il basket, alcuni esercizi di stretching, come quelli riportati in Figura 4 e 5, andrebbero utilizzati con moderazione. Inoltre la durata dell’allungamento dovrebbe essere limitata ad un massimo di 5” al fine di ottenere un’elongazione muscolare massimale e non incorrere in un fenomeno di contrazione riflessa del muscolo sottoposto ad allungamento (59).
Non è razionale pensare che sia sufficiente una pratica, anche se assidua e costante, dello stretching per poter prevenire in forma sistematica gli incidenti di natura muscolare. Altresì, data l’eziologia multifattoriale di questi ultimi, non è giustificato poter pensare ad una completa inutilità dello stretching in questo campo. La scelta più obiettiva e corretta sembrerebbe essere il considerare lo stretching come uno dei molteplici mezzi di prevenzione da adottare nell’ambito di una strategia preventiva di tipo integrato e sinergico.
L’utilizzo dello stretching nella prevenzione del fenomeno del delayed muscle soreness apparirebbe ingiustificato e sostanzialmente inutile.
Il ruolo della componente miogena nell’ambito del fenomeno dell’allungamento muscolare, nei confronti di quella di tipo neurogeno e connettivale, è sicuramente da rivalutare: in quest’ambito necessiterebbero dunque ulteriori approfondimenti scientifici.

Figura 4: Stretching del quadricipite femorale

Figura 5: Stretching dei gemelli – Sia questo esercizio che quello riportato in Figura 4, sono quasi sempre presenti nelle routines di riscaldamento pre-gara. Data l’importanza biomeccanica della muscolatura estensoria in numerose discipline sportive, onde evitare d’influenzare negativamente la performance, è consigliabile limitare questi esercizi (e comunque tutti gli esercizi di stretching similari rivolti all’allungamento del quadricipite e dei polpacci) ad un massimo di 3 ripetizioni della durata di non oltre 5” per ciascun arto.

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GLOSSARIO

Amniota: dal greco amnion, agnellino, sacco per la raccolta di sangue sacrificale. Superclasse che comprende i Tetrapodi i cui embrioni sono provvisti di amnios e di allantoide (Rettili, Uccelli e Mammiferi), capaci di riprodursi e compiere il loro sviluppo embrionale nell’ambiente aereo.
Collagene o collageno: proteina semplice, fibrosa, contenuta nei tessuti connettivi, in particolare nelle fibre collagene e reticolari, ai quali conferisce una notevole resistenza meccanica alla tensione. Il collageno è costituito da unità di tropocollageno, caratterizzate dalla presenza di aminoacidi rari quali l’idrossiprolina e l’idrossilisina, associate in strutture superiori ordinate. Per ebollizione in acqua dà luogo alla formazione di gelatina.
Lamina basale: struttura strettamente accollata al plasmalemma di alcuni tipi cellulari, specialmente delle cellule epiteliali sul versante connettivale; nel caso dell’epidermide rappresenta una componente del complesso giunzionale definito membrana basale. La lamina basale è costituita da proteoglicani e glicoproteine.
Glicosaminoglicano: polisaccaride acido complesso, generalmente costituente la catena polisaccaridica di un protidoglicano. I glicosaminoglicani sono costituiti prevalentemente da catene polimeriche di unità quali l’acido glucuronico, l’N-acetil-glucosamina, l’N-acetil-galattosamina, l’N-acetil-galattosamina esterificata in posizione 4 o 6 da residui di acido solforico, ecc. Essi sono per lo più sostanze acide altamente idratate, gelatinose e viscose, presenti soprattutto nella sostanza connettivale fondamentale, nella cartilagine, nell’osso, nel liquido sinoviale articolare, nell’umor vitreo dell’occhio e sui rivestimenti cellulari esterni. I principali glicosaminoglicani sono l’acido ialuronico, il condroitinsolfato, il dermatansolfato, il cheratansolfato, l’eparansolfato e l’eparina.
Acido ialuronico: principale glicosaminoglicano della sostanza fondamentale del tessuto connettivo. Le molecole di acido ialuronico sono polimeri quasi lineari di peso molecolare molto elevato (105-106 dalton), la cui unità ripetitiva è costituita da un residuo di N-acetilglucosamina unito con legame b-1,4-glicosidico a uno di acido D-glucuronico. Quest’ultimo è unito con legame b-1,3-glicosidico alla successiva unità disaccaridica. L’acido ialuronico è presente, associato a proteine, anche nel corpo vitreo dell’occhio, nel liquido sinoviale e nella cute. La sua demolizione è catalizzata dall’enzima ialuronidasi.

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